Erving Goffman e la metafora teatrale

Erving Goffman e la metafora teatrale

Il sociologo canadese Erving Goffman, la cui opera è riconducibile alle teorie dell’interazionismo simbolico, spiega la realtà sociale servendosi di una metafora “teatrale”.

Erving Goffman
Erving Goffman

La sociologia di Goffman è concentrata sulla comprensione delle dinamiche che avvengono nella vita quotidiana e nell’interazione faccia a faccia.  Nella sua opera più importante La vita quotidiana come rappresentazione (1959) illustra i cardini della sua teoria che può essere sintetizzata con questa frase: la vita quotidiana e le relazioni umane sono rappresentazioni teatrali, con attori, pubblico e palcoscenico.

Il Sé (Self) Il sé è una costruzione sociale e viene alimentato dalle interazioni. La consapevolezza di un Sé come costruzione sociale è presente in tutto l’interazionismo simbolico.

L’approccio teatrale di Erving Goffman

Per Goffman la vita sociale delle persone si svolge come una rappresentazione sul palcoscenico
(approccio teorico drammaturgico). L’interazione avviene non a caso, ma secondo regole ben definite.

Le interazioni, oggetto di studio privilegiato dal sociologo canadese, avvengono non soltanto attraverso il linguaggio verbale, ma anche tramite abbigliamento, gesti, posture e oggetti utilizzati dai soggetti. Durante tutte le interazioni, ogni persona recita se stessa all’interno di una situazione “triangolare” attore-palcoscenico-pubblico.

I gruppi sociali, come se agissero all’interno di un enorme teatro, si possono dividere in gruppi di performance e gruppi di audience.

I gruppi di performance sono costituiti dalle persone impegnate nella recitazione (performance, appunto) e agiscono su uno “spazio pubblico” costituito dal palcoscenico e, a intervalli, su uno “spazio privato” costituito dal retroscena, il “dietro le quinte”.

I gruppi di audience non hanno accesso al retroscena, ma possono vedere solo ciò che avviene sul palco. Si può facilmente immaginare, a questo punto, la contraddizione che può esserci tra la finzione del palcoscenico e la realtà del retroscena. Per usare le parole dello studioso canadese, “La rappresentazione di un individuo sulla ribalta può esser considerata come un tentativo per mostrare che la sua attività entro quel territorio segue certe norme”[1]. Le stesse norme possono essere allentate quando lo stesso individuo si trova dietro le quinte. Per descrivere meglio questo tipo di situazioni, Goffman utilizza l’esempio dei camerieri di un ristorante, intenti nella loro recitazione in sala davanti ai clienti e decisamente più autentici quando questi varcano la soglia delle cucine.

La metafora teatrale di Erving Goffman
La metafora teatrale di Erving Goffman

Il Self, cioè l’io o l’autocoscienza

Nel modo con il quale interpretiamo il nostro ruolo entra in gioco quello che Goffman chiama Self (cioè l’io, o autocoscienza), che si caratterizza per i seguenti aspetti:

il front, ciò che contribuisce a creare la nostra “maschera”, cioè l’immagine di superficie, e comunica il nostro status sociale: vestiti, aspetto, possesso di eventuale iphone, ecc.;

la  dramatic  realisation:  la  performance,  cioè  il  comportamento  messo in campo;

la idealisation, cioè la dimostrazione pubblica di aver interiorizzato i  valori riconosciuti dalla comunità;

la mistifcation, il tentativo di apparire persone autentiche senza dare l’impressione di fingere

La spersonalizzazione del Sé nelle istituzioni totali (Asylums)

L’istituzione totale è un luogo in cui un gruppo di persone convive per un certo periodo sotto il controllo di altre persone, in condizioni di costrizione e separazione dal resto della società.

Goffman osserva per lungo tempo le interazioni che avvengono in manicomio. Per fare ciò utilizza una serie di accorgimenti metodologici, tra cui la sua presenza nella struttura sotto un ruolo di copertura come tecnico radiologo.

Da queste osservazioni emerge un dato importante insito in questa istituzione totale, cioè che la gerarchia penalizza i malati a favore dei non malati, che privati di tutto cercano la loro difesa in piccole azioni “normali”. Goffman nota che questi malati sono privati di tutto, anche di oggetti personali, e che ciò aumenta il potere “spersonalizzante” dell’istituzione. Questi luoghi hanno in potere di ridurre a sé l’individuo operando una vera e propria spersonalizzazione del Sé.

Stigma, ovvero l’identità negata

Tutto ciò che secondo Goffman avviene in manicomio si ripresenta nelle società democratiche. Questo tema viene sviluppato nell’opara “Stigma. L’identità negata”.

Lo stigma (parola che, dal greco, significa letteralmente “segno”) è la connotazione negativa associata a un individuo sulla base di alcuni aspetti, come: colore della pelle, difetti fisici, disturbi comportamentali ecc.

L’interazione faccia a faccia avviene entro una cornice (frame), nella società così come nelle istituzioni totali. All’interno di una cornice normale vige un codice comune, che fa apparire tutto normale, anche se si tratta di una normalità molto fragile.

Di fronte ai soggetti portatori di stigma la cornice diventa asimmetrica, asimmetria nell’interazione, in cui il codice comune di riferimento è stato distorto. Lo stigma crea asimmetria, la quale a sua volta impedisce la condivisione di un codice comune. Lo stigma è creato nella società attraverso atti di inferiorizzazione, attraverso cui i soggetti portatori di questi particolari segni vengono inferiorizzati, denigrati e screditati.

Quando lo stigmatizzato sperimenta una asimmetria nell’interazione, si accorge di essere collocato a un livello più basso e, naturalmente, cerca di rifiutare questa condizione lottando per cambiare la presentazione di sé e apparire in modo accettabile. Il soggetto a questo punto prende coscienza delle convenzioni sociali e cerca di recitare, offrire una sua rappresentazione redimente. Ciò crea per Goffman delle sofferenze.

I meccanismi della stigmatizzazione secondo Goffman
I meccanismi della stigmatizzazione secondo Goffman

[1] Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione (1959), trad. di M. Ciacci, Il Mulino, Bologna, 1969.

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