Françoise Fénelon e l’educazione delle fanciulle

Françoise Fénelon e L’educazione delle fanciulle: così viene ricordato il pedagogista cattolico, come il fautore di una prima apertura all’educazione femminile.

Fénelon (François de Salignac de La Mothe: 1651-1715) era un colto aristocratico della Francia del  secolo d’oro, sotto Luigi XIV. Un gran magnifico gentiluomo, si dice. A 23 anni si fece prete. Intorno ai 35 divenne precettore, cioè educatore del giovane duca di Borgogna, destinato, se non fosse morto in giovane età, a succedere al trono. Una posizione quindi, quella di Fénelon, di grandissima responsabilità e di somma importanza, grazie alla quale divenne vescovo in una sede di prestigio.

Cultura classica, molto vasta, raffinata, approfondita. Intelligenza superiore. Gran maestro d’analisi e di penetrazione psicologica. Abilissimo affabulatore, oratore, persuasore. Molto credente, si deduce dai suoi scritti, nella religione cattolica, la quale permea totalmente di sé ogni suo interesse, ogni sua azione. Abilissimo “politico”, se per politico intendiamo colui che sa far ingerire la pillola amara al suo avversario, indorandogliela e addolcendogliela affinché la inghiotta senza batter ciglio. Molto stimato dai suoi contemporanei (fu nominato accademico di Francia) e molto letto ai tempi suoi e nel secolo successivo. Oggi molto citato e poco letto.

L’eredità di Fénelon

Cosa ci ha lasciato, letterariamente, Fénelon? Un epistolario, un trattato di teologia e soprattutto due trattati di pedagogia. Uno, L’educazione delle fanciulle (1687), esplicitamente destinato al fine indicato dal titolo stesso. L’altro, Le avventure di Telemaco (1699), sotto le mentite spoglie di romanzo, un compendio educativo per il suo giovane allievo destinato al trono: un invito alla moderazione, al non assolutismo, al rispetto dei diritti umani, al pacifismo, alla giustizia.

Descrizione dell’opera

L’educazione delle fanciulle è un libriccino breve, meno di 150 pagine, che si legge piacevolmente, da un punto di vista letterario, perché molto astuto, persuasivo, garbato, signorile. Fénelon l’aveva scritto destinandolo ad una coppia di duchi che avevano otto figlie. Otto femmine, un bel problema! Otto jeunes filles che bisogna educare alla modestia e all’obbedienza. Ed ecco come si fa, ce lo dice l’abate Fénelon.

In un’edizione del 1948, quindi non d’oggi, e tuttavia relativamente recente perché pur sempre del “nostro”secolo, il XX, il curatore ci dice, testualmente,: ”…lo spirito che anima questo piccolo bel trattato che ancora oggi raccoglie l’approvazione delle persone che non hanno perduto il buon senso…”.

Chi scrive queste note evidentemente ha perduto il buon senso e dirà subito pertanto, qual è, a parer suo, “lo spirito che anima questo bel trattato”: lo spirito del demonio. È un libriccino terrificante. E tanto più terrificante quanto più è garbato, piacevole, suasivo, pieno di “buon senso”, di grazia, di amore per i fanciulli.

L’attualità di Fénelon

Merita, leggerlo, oggi, un libro come questo? È doveroso leggerlo. Perché fa inorridire lo scoprire con quanta dolcezza, buona educazione, “buon senso”, belle maniere, la Chiesa cattolica praticasse, a quei tempi, la propria violenta, tirannica, spietata coercizione sulle menti dei giovinetti, delle “giovinette”, degli esseri umani in genere. Un’attività mostruosa, di demolizione dell’intelligenza, dell’individualità, del senso critico, della libertà di pensiero, del piacere di vivere e di sentire, condotta con diabolica, suadente, sistematica, ben sperimentata perizia. Leggiamo dunque il libriccino e vediamola insieme questa tecnica educativa.

Fénelon parte bene, meravigliosamente bene, precisando, all’inizio del libro, cose giuste, belle, sagge.

A quei tempi si era più maschilisti di oggi, anzi, si era solo maschilisti. Le femmine non metteva conto educarle: tutte le risorse si dedicavano ai maschi, i veri padroni del mondo e, per inciso, i padroni assoluti delle gerarchie ecclesiastiche.

Ebbene: Fénelon parte condannando questo luogo comune. Dannoso, sbagliato, egoista, ingiusto. All’inizio del nostro libriccino sembra d’essere nel secolo successivo, nel secolo dei Lumi. Parte denunciando i luoghi comuni: “delle fanciulle si dice: non importa che siano istruite, lo studio le rende vane e saccenti. Basta che sappiano un giorno governare le loro case e obbedire al marito senza ragionare…” (I, 20).

Fénelon non accetta questi luoghi comuni e con sensibilità e intelligenza obietta che le donne hanno la grande responsabilità del buon andamento della famiglia e sì, è vero, le donne non dovranno dirigere e governare lo Stato, ma cos’è lo Stato se non la somma delle famiglie? Ergo: le donne hanno grande importanza nella società e quindi vanno educate.

Ed enuncia di seguito dei principi educativi generali che non possono che ricevere, ancor oggi, consenso, riguardanti l’educazione in genere, sia maschile che femminile.
Per esempio che l’ignoranza crea la noia, con tutte le conseguenze del caso. Parla di una parte pre-verbale dell’apprendimento, comunque importante. Del successivo apprendimento verbale, momento delicato, fondamentale. Dell’abitudine dei bambini di far domande, a raffica, alle quali, dice Fénelon, bisogna sempre rispondere con precisione e pazienza. Loda, nel bambino, il dubbio, che va apprezzato ed incoraggiato, da parte dell’educatore, molto più che non le eccessive certezze. Avverte come il bambino sia incline a imitare, a emulare e quanto sia importante, quindi, sorvegliare ogni comportamento davanti a loro. Segnala l’enorme facilità

Fénelon contro l’autoritarismo per una didattica paziente e rispettosa del fanciullo

D’apprendimento delle menti fresche e giovani e quindi l’importanza dell’insegnamento nei primi anni di vita, fondamentali. Per insegnare le cose difficili, sgradevoli, spiega Fénelon, è necessario coinvolgere il bambino, chiarirgli che “la pena sarà presto seguita da godimento… rilevategli sempre l’utilità delle cose che gli insegnate.” (V). È importante, continua, “indicar loro un fine solido e gradevole che li sostenga durante il lavoro e non pretender mai di assoggettarli con autorità dura e assoluta…” (V). “Dopotutto – prosegue – la confidenza e la sincerità sono loro più utili che non l’autorità rigorosa…” (VI). “La verga”, intesa come punizione corporale autoritaria, è l’ultima delle cose da usare, e così la paura, la minaccia: “ancora una volta, non bisogna far ciò se non quando non si potrebbe fare altrimenti…” (V).

Fénelon, insomma, si dichiara a favore della dolcezza, della persuasione, del buon esempio, dell’autorevolezza: e biasima invece l’autoritarismo. Alla paura si potrà ricorrere solo “dopo aver provato pazientemente tutti gli altri rimedi…” perché “un’anima trattata con la paura diventa sempre più debole…”. E per i casi più difficili, prosegue Fénelon, e pare quasi anticipare Cesare Beccaria, “bisogna castigare ancor meno che minacciare… e per i castighi la pena dev’esser la più leggera possibile…”(V).
Entra anche nel profondo della psiche infantile, per esempio là dove sostiene, nei casi estremi, che sia meglio mostrare a un bambino che gli si risparmia una vergogna pubblica piuttosto che causargliela…

Fénelon precursore dell’attivismo

Poi diventa, Fénelon, nella fase eruditiva dell’educazione, addirittura di tendenza montessoriana: attraverso il divertimento, si apprende molto più che attraverso la noia. Un grave difetto, dice, è quello di “metter tutto il piacere da una parte e tutta la noia dall’altra, tutta la noia nello studio, tutto il piacere nei divertimenti… Procuriamo di cambiare quest’ordine: rendiamo gradevole lo studio…” e cerchiamo di far sentire ai bambini “i piaceri che possono essere offerti dallo spirito” (V).

E fin qui, fino a tutto il quinto capitolo, un terzo circa del libro, tutto va bene, molto bene.
Ora inizia il tragico. Ne avevamo già avuto un assaggio nel secondo capitolo quando si era messo a parlare della curiosità femminile. La natura femminile è curiosa, bisogna reprimerla questa curiosità, perché è dannosa, soprattutto la curiosità accompagnata dall’intelligenza, ci dice Fénelon. Viene loro voglia di leggere libri, troppi libri: “leggono tutti i libri che possono accarezzare la loro vanità, si appassionano per romanzi, commedie, racconti di avventure chimeriche, dove è mescolato l’amor profano. …Alcune spingono la loro curiosità ancor più lontano e giungono a sentenziare sulla religione, ancorché non ne abbiano affatto capacità…” (II).

Dunque niente libri, niente storie, niente racconti? Oh, no! Anzi: bisogna raccontar loro delle fiabe, delle favole. Purché non siano “pagane”. Le favole pagane “una fanciulla sarà fortunata se le ignora per tutta la vita, perché esse sono impure e piene di empie assurdità…” (VI). Da raccontar loro, invece, la storia di Giuseppe, di Giacobbe… “Bisogna procurar loro più gusto per le storie sacre che non per le altre, non dicendo che sono le più belle, cosa che forse non crederebbero, ma facendolo capire senza dirlo…” (VI).

E insegnar loro il catechismo. Questo sì, è fondamentale: c’è un capitolo, il settimo, che è interamente dedicato a “come insegnar ai fanciulli i primi principi della religione” e un capitolo, l’ottavo, di “istruzione sul decalogo, i sacramenti, la preghiera”.

Fénelon è un credente, un prete, e quindi non possiamo aspettarci su questi temi nulla di diverso da come i credenti e i preti trattano la materia fideistica. Tuttavia fa onore a Fénelon, fin qui, un’intelligente apertura verso la spiritualità, contrapposta a una decisa chiusura al formalismo dei riti. “La semplice osservanza del culto esterno è inutile e nociva se non è interiormente animata dallo spirito d’amore e di religione…”. E poco oltre: “le cerimonie non sono la religione stessa: essa è tutta interiore…” (VIII). Il resto possiamo tralasciarlo perché parla dei precetti della sua religione e ovviamente non fa altro che il suo mestiere.

Dal punto di vista educativo oggi sappiamo quali risultati possa comportare l’educazione cristiana laddove insegna che la felicità non va perseguita su questa Terra, ma nel regno dei cieli, e tuttavia non possiamo imputarne le gravi responsabilità al povero Fénelon. Fénelon fa parte di un sistema e non vi è nulla di originale, in lui, che possa attribuirgli maggiori o minori responsabilità di quante ne abbia il sistema stesso.

Fénelon contro la vanità

Passiamo oltre, quindi, al Fénelon prete e catechista, e torniamo al Fénelon pedagogo. Che ora, nel decimo capitolo, ci parla della “vanità della bellezza e dell’abbigliamento”. Come sempre dice cose belle e ragionevoli. Una in particolare ci piace citarla perché è bellissima e sul piano della poetica spalanca le porte a tanti e tantissimi momenti di grande emozione e di grande malinconia (si pensi, uno tra mille, a quella perla tra le poesie di Buzzati dal titolo Giorno verrà…): ”non v’è che un piccolissimo numero di anni di differenza tra una bella donna e una che non è tale” (X). Qui Fénelon ha la stessa sensibilità emotiva e la stessa intensità lirica che si troverebbero in un sonetto shakespeariano, salvo, poche righe dopo, le ciniche conclusioni cattoliche che all’improvviso ci riportano alla meschina realtà d’un libello confessionale: “La bellezza non può essere che nociva, a meno che serva a far maritare vantaggiosamente una ragazza…” (X). E a questo punto si aprono le cataratte del virtuosimo cristiano, un’empia, tragica, malata, ideologia della cupa tragicità della vita… Sentiamo le parole di Fénelon, le sue “regole della modestia cristiana” (X): “l’uomo nasce dalla corruzione del peccato. Il suo corpo, tormentato da una malattia contagiosa, è una sorgente inestinguibile di tentazioni per l’anima sua…” (X).

C’è anche il sex-appeal in questo capitolo sulla vanità della bellezza, manco a dirlo condannato perché “quando si cerca di piacere, che cosa si pretende? Non è forse per eccitare le passioni degli uomini?” (X). Non resta che reprimere ogni forma di giovanile entusiasmo: “Reprimete rigorosamente tutte le loro fantasie… Quel che rimane da fare si è di distogliere le fanciulle dal far le spiritose. Se non si guarda, quando esse sono un po’ vivaci, cacciano il naso dappertutto, di tutto voglion parlare… Una fanciulla non deve parlare se non per veri bisogni…” (X). La conclusione è che le fanciulle devono tacere punto e basta. Ma siccome il tacere può generare noia e la noia – sappiamo – è fonte di peccato, la fanciulla alla Fénelon deve tacere senza annoiarsi di tacere. Cioè: ”sappia tacere e far qualcosa…”! (X).

I doveri delle donne

E siamo al capitolo undicesimo: “Istruzione delle donne sui loro doveri”. Eravamo partiti bene, ricordiamo? Là dove, all’inizio del libro, l’illuminato Fénelon predicava contro il luogo comune che non metta conto istruire le donne. Ci mancherebbe! Vanno istruite, eccome! Devono essere istruite all’ignoranza più totale, salvo nelle cose in cui ci fa comodo sappiano qualcosa, per servirci meglio. Religione innanzi tutto. Poi un po’ di economia, un po’ di diritto, musica e poesia (purché cristiane) e magari un po’ di pittura. Ma andiamo con ordine…

La donna “è incaricata dell’educazione dei figli, dei maschi fino a una certa età e delle femmine fino a che si maritano o si fanno religiose; della direzione dei domestici… del minuto ragguaglio della spesa, dei mezzi di far tutto con economia, di solito anche di provvedere agli affitti e riscuotere le rendite. Il sapere delle donne, come quello degli uomini, si deve limitare all’istruzione relativa alle loro funzioni… Bisogna pertanto limitare l’istruzione delle donne alle cose che diremo. Ma una donna curiosa troverà che questo è un mettere dei limiti ben ristretti alla sua curiosità: essa si sbaglia! Gli è che non conosce l’importanza e l’estensione delle cose di cui io le propongo di istruirsi…” (XI).
Infatti, spiega Fénelon, la donna dovrà “esser pienamente istruita intorno alla religione…” (XI). Soprattutto perché dovrà educare i figli, che dovrà essere la sua principale preoccupazione. E non si preoccupino d’altro le donne, tant’è che persino “San Paolo collega talmente la loro salvezza all’educazione dei figli da assicurare che è per essi che otterranno il loro salvamento” (XI).
Poi viene “l’economia… per essere in condizione di governare tutta una famiglia, la quale è una piccola repubblica… Sin dall’infanzia… è bene abituarle a governare qualcosa, a far dei conti, a osservare come si contratta tutto ciò che si acquista…” (XI). Poi vengono la pulizia e l’ordine: “fate loro osservare che nulla contribuisce di più all’economia e alla nettezza che il tener sempre ogni cosa al suo posto…” (XI).

Françoise Fénelon e l’educazione delle fanciulle: leggere e far di conto

Ma allarghiamo ora l’orizzonte e passiamo al capitolo successivo che inizia con l’affermazione che farsi servire è una scienza che bisogna saper bene apprendere. E come? Semplice: “bisogna scegliere domestici che abbiano onore e religione” (XII). E prosegue affermando che “a una fanciulla bisogna insegnare a leggere e scrivere correttamente” e bisogna abituarle “a far le loro linee dritte e a rendere la loro scrittura chiara e leggibile” e che esse “dovrebbero anche conoscere le quattro regole dell’aritmetica” e che sarebbe bene “conoscessero qualche cosa delle principali regole del diritto: per esempio la differenza tra un testamento e una donazione e che cos’è un contratto…” (XII).
E le lingue? Si possono studiare le lingue? Con discernimento. Per esempio: l’italiano e lo spagnolo, no, “perché non servono quasi ad altro che a leggere dei libri dannosi e capaci di aumentare i difetti delle donne…” (XII). Invece lo studio “del latino sarebbe molto più ragionevole, perché è la lingua della Chiesa… mai io non vorrei far imparare il latino se non alle fanciulle di giudizio fermo e di condotta modesta…”. A queste, e solo a queste, “io permetterei altresì un’accurata scelta di letture di opere di eloquenza e di poesia…”. Ma giudizio, giudizio! Attenzione alla lirica latina, perché “tutto quello che può far sentire l’amore, più è addolcito e velato, più mi sembra nocivo…” (XII).
E la poesia e la musica? Certo, ben vengano: “quante opere poetiche non abbiamo nelle Scritture! …il canto delle lodi di Dio… una musica ed una poesia cristiane…” (XII). E non è necessario spaziare troppo: basta pensare “quanta attrattiva si può riscontrare nella musica senza uscire da quella di carattere religioso…” (XII).

Infine, e così si chiude la dissertazione sull’istruzione e sulla cultura, infine, nell’istruire una fanciulla, è bene badare “a che non concepisca speranze superiori ai suoi averi e alla sua condizione”.

Articolo tratto da tiraccontoiclassici.it